La messa è finita…con la vittoria degli Stadio

L’edizione numero 66 del Festival sanremese si è chiusa con dati d’ascolto ancora migliori di quelli già altissimi dello scorso anno. Nel complesso un rituale decoroso nel quale ancora una volta si sono specchiati gli umori ondivaghi di un Paese perennemente in bilico tra smanie di grandezza e il suo endemico provincialismo
Gli Stadio

La grande abbuffata non è ancora stata digerita dai più, ma è già sulla soglia dell’implacabile oblio mediatico. Quest’anno a portarsi a casa l’ammennicolo più desiderato  d’Italia sono stati gli Stadio con un brano che, col senno del poi, pare il riflesso speculare di questa edizione: una ballatona simil-rock stagionata assai (guarda caso, scartata l’anno scorso) e dignitosamente interpretata; Un giorno mi dirai sorvola i travagli comunicativi e sentimentali tra un padre e una figlia: senza mai affondare il bisturi, senza lampi di vera poesia o di grande melodia, sicché il verdetto pare più un premio fedeltà a un gruppo che circola all’Ariston dal lontano 1984. Senz’altro più originale l’Amen di Francesco Gabbani – vincitore fra le nuove proposte – che ben fotografa le confusioni e le emorragie (anche spirituali) di un presente che pare aver smarrito finanche il senso del proprio procedere.

 

Carlo Conti e la sua squadra sono comunque riusciti nell’impresa tutt’altro che scontata di migliorare se stessi, assemblando un evento nel pieno rispetto del suo imprinting nazional-popolare, epperò capace anche di qualche inattesa sterzata fuori pista. Non a caso quest’anno il Festival l’ha stravinto per acclamazione lo stupefacente maestro Ezio Bosso: che con humor e grazia suprema ci ha regalato un quarto d’ora di grande televisione, stritolando gli stucchevoli cliché tanto cari alla  “tivù del dolore”, per trasformarli nell’indiscutibile trionfo della locuzione “diversamente abile”.

 

Sbagliavo dunque quando, la settimana scorsa, prevedevo un’edizione priva di momenti in grado di sopravvivere all’attimo in cui si consumavano. Per quanto, quanto al resto, resterà ben poco: i nastrini arcobaleno trasformati in spot pro Cirinnà, qualche gag fulminante della Raffaele, il duetto della Pausini con la se stessa di vent’anni fa (non c’era modo più efficace per materializzare l’anima di questa edizione), e ancora, gli allegri sfottò della combriccola del Dopofestival, qualche giovane di buone potenzialità (scommetterei su Chiara Dello Iacovo), e una manciata di canzonette destinate a galleggiare nelle playlist per qualche settimana.

 

Insomma, il gran carrozzone e i suoi pifferai sono transitati sugli italici orizzonti senza grandi strepiti e senza far danni, srotolando la solita liturgia consunta e mille volte già vista. Ma se l’anno scorso il tutto aveva il sapore di una clamorosa restaurazione, quest’anno è parsa poco più di una ribollita… E allora non mi resta che far mio l’epilogo del baffuto Gabbani: “Dal ricco in look ascetico, al povero di spirito, dimentichiamo tutto con un Amen”.

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